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15 MARZO 2021
IlTicino.it - “La radura dimenticata. Breve viaggio nella violenza”

La riflessione del Dott. Gustavo Cioppa, Magistrato, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia e Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia

“Qualcosa in fondo al cuore di ogni essere umano,
nonostante tutta l’esperienza dei crimini compiuti,
sofferti e osservati, si aspetta invincibilmente
che gli venga fatto del bene e non del male.
È questo, anzitutto, che è sacro in ogni essere umano.”

Simone Weil, “La persona e il sacro”

Non è tanto l’intensità della violenza – è sempre esistita, dalla comparsa del primo uomo sulla Terra – quanto l’assuefazione ad essa, ad allarmare chi ancora si inquieta;  per cui è lecito dire che siamo davanti a una recrudescenza, a un aumento della violenza (nei giovani soprattutto), a un’era di rinnovata barbarie.

All’inizio degli anni Settanta del secolo scorso, Pasolini registrava l’assuefazione a una mentalità criminale e criminaloide, lucidamente descritta e analizzata in quei lungimiranti saggi che gli hanno valso l’epiteto di profeta, raccolti negli “Scritti corsari” e nelle “Lettere luterane”.

A monte della violenza vi sono la “forza paralizzata”, “il gesto privo di moto” (T. S. Eliot, “Gli uomini vuoti”), la mancanza di comunicazione autentica, la non condivisione dei sentimenti: chiari sintomi di quella malattia morale che consiste nella debolezza della volontà, che si potrebbe chiamare “morte del cuore”. L’atteggiamento dell’assuefatto è quello dell’accidioso. Passare per ‘normali’ comportamenti criminali che avvengono ogni giorno con frequenza impressionante è fare un uso improprio dell’aggettivo ‘normale’. Passare per normalitario un atteggiamento patologico significa alterarlo, e significa, anche, favorire certe sottili modificazioni percettive. Per fortuna non siamo tutti uguali, a ciascuno la propria sensibilità che, si sa, se molto intensa l’impatto col mondo fa male.

La violenza non è ancora il male

La violenza è nel DNA dell’uomo, a ben guardare ogni creatura è violenta. E la Vita lo è naturalmente, oltre che crudele. Per Antonin  Artaud crudeltà non è altro che “appetito di vita, rigore cosmico, necessità implacabile, nel significato gnostico di turbine di vita che squarcia le tenebre, nel senso di quel dolore senza la cui ineluttabile necessità la vita non potrebbe sussistere.”

Ma la violenza non è ancora il male. Male è mancanza di speranza: ignavia.

La tecnologia, che nasce in ambito bellico, è sicuramente alleata della violenza, e contribuisce ad aumentarla. Non occorre l’aggiunta di un microchip sottocutaneo per aumentare il coefficiente di violenza nel DNA umano.

Per Eliot, avere il cuore morto, non avere cuore, constatare la ‘morte nell’anima’ è peggio che essere delle anime violente.  Così è nella poesia del 1925 “The Hollow Men”, il cui titolo nella traduzione italiana è “Gli uomini vuoti”. Ecco, Kurtz  (il turpe personaggio del mercante di avorio in “Cuore di tenebra” di Joseph Conrad), che compare in epigrafe alla poesia, è un’anima violenta, ma gli ‘indifferenti’ di ieri e di oggi (tra cui i negazionisti della realtà dei lager) sono peggio.

Al di qua della Ragione (quanti crimini sono stati commessi in suo nome…) c’è la coscienza e lì deve rimanere. Chiedono non solo giustizia, ma anche di essere ricordati e amati da tutti, coloro che hanno patito ‘troppa realtà’, tra cui, recentemente, il nostro ambasciatore Luca Attanasio, trucidato  lo scorso 24 febbraio in Congo. E ‘l’agnello’ Jim, il giovane reporter statunitense laureato in storia dell’arte, decapitato dai terroristi islamici nell’agosto del 2014. Chi non possiede solo una memoria a breve termine se lo ricorderà di certo. Era un torrido week end d’inizio agosto, le spiagge affollate, il giornale spiegato sulle ginocchia dei bagnati sotto gli ombrelloni, a caratteri cubitali le notizie atroci in prima pagina. Lo stesso cielo azzurro, smagliante, indifferente, in altro luogo, il deserto caro ai Padri del deserto, e ‘l’agnello’ Jim, e quella luce fantastica, solenne, accecante, poi il riverbero della lama, ‘rumor di metallo’.

Lo spazio obbligato del relativismo è un recinto che si restringe sempre più fino a divenire una trappola per topi. E si è coscienti, oh, sì,… ma coscienti di nulla. Ci siamo ritrovati in una selva oscura e vuota, pozzo senza fondo, e nulla vi è all’infuori di questa selva. Eppure una radura in cui stare al sicuro dovrà pure esserci. Ma non si scorge assolutamente nulla e non giunge alcun rintocco di campana che possa recare sollievo. Errare nella selva è anche attraversare la linea (interminabile) del nichilismo. Non ne siamo affatto usciti. E il clima del paese del relativismo è irrespirabile, asfissiante, spaventoso. Sono queste “le magnifiche sorti e progressive”? Essere esistenze prive di sentimento e considerare nulla la vita altrui?

L’articolo di Pasolini sul “Corriere della Sera”

Sarebbe utile rileggere, per alcuni si tratta di leggere, l’articolo di Pasolini uscito il primo marzo 1975 sul “Corriere della Sera”, intitolato “Non avere paura di avere un cuore” (ora in “Scritti corsari”), che potremmo considerare l’antefatto di questo breve excursus nel pianeta della violenza. In esso Pasolini, da acuto osservatore della natura umana (come lo è ogni scrittore), registrava la mutazione antropologica e denunciava come la violenza sui corpi fosse diventata il dato più macroscopico della nuova epoca umana, che di umano, purtroppo, ha ben poco. Come ben si adatta alla realtà di oggi quell’analisi dolorosa e appassionata. Ma Pasolini non è profeta, poiché la realtà descritta non riguardava un futuro distopico, bensì il presente di allora: gli anni del ‘boom’ che vedevano Pasolini impegnato dalla poesia al romanzo, alla saggistica, al cinema; vero intellettuale a 360 gradi.

In questo pozzo senza fondo, raspiamo come fa il topo, per afferrare brandelli di luce, autentiche pepite d’oro in grado d’infondere speranza.

Basterebbe che un piccolo spazio sfuggisse al controllo, e da lì ripartire. Basterebbe l’integrità per non soggiacere alla violenza psicologica della nuova forma di potere, violentemente totalizzante. Basterebbe l’integrità per non sacrificare la propria energia morale e intellettuale. Chiudere gli occhi davanti ai soprusi è sempre acconsentire. Essere anime sordide o anime morte, questo il problema. Ma forse, adesso, coincidono entrambe le situazioni esistenziali. Credo che questa sia la più violenta fra tutte le epoche.

L’indifferenza verso gli altri, il mondo e se stessi è espressa compiutamente nel personaggio di Stavrogin (Fedor Dostoevskij, “I demoni”) che afferma: “Non conosco e non sento dentro di me né il male né il bene, non solo ho perso il senso, ma so che il male e il bene in realtà non esistono nemmeno (e ciò mi fa piacere), e non sono altro che pregiudizi.”

Ciò che è reale non sempre è razionale. L’esperienza smentisce quasi sempre la fredda astrazione hegeliana. Fino a che punto possa spingersi la Ragione non frenata dal cuore, spinta all’estremo, oltre l’estremo? Questo ha indagato Pasolini nell’ultimo suo film, “Salò o le 120 giornate di Sodoma”. È a quel punto che il male si mostra nella sua banalità, ordinarietà, sobrietà.

Ma per giungere a una simile modificazione antropologica occorre togliere di mezzo, o indebolire, l’intelligenza emotiva, cosa che riesce assai bene alla tecnologia, dispiegata nel linguaggio dei social, dei video-games e, perché no, di qualsiasi oggetto transitante nei media, sia anche un semplice esercizio sotto forma di test da somministrare agli studenti della ‘buona scuola’. Per inculcare nuovi stili di vita e abiti mentali, al passo coi tempi, occorre mettere fuori campo il sentimento d’empatia, che sostanzia l’arte (ogni arte) e la poesia, dichiarate inutili da ogni ideologia totalitaria.

E se un giorno funesto l’uomo non fosse più in grado di sentirlo – il cuore – di commuoversi? Che cosa resterebbe dell’uomo? Temo sia l’ignavia a rimanere, il deserto del nulla. Se quel giorno funesto dovesse arrivare, quale salvezza potrebbe il genere umano auspicarsi?

“Basta!…” esclama qualcuno. “Via, via, via, disse l’uccello: il genere umano / Non può sopportare troppa realtà.” (T. S. Eliot,

“Burt Norton, Quattro quartetti”).

Il sempreverde della vicinanza e dell’amore

Qualcuno vorrebbe ritornare a casa. Ma ‘dove’ ritornare, se è il mondo ad essersene andato? Quasi nulla più è famigliare qui. “E gli astuti animali certo si accorgono / che non diamo affidamento, non siamo di casa, / nel mondo interpretato.” (R. M. Rilke, “Prima Elegia”). Se l’affettività e la tenerezza paiono azzerate nel deserto in cui viviamo, unici depositari di questi beni, che una volta furono anche dell’uomo, sono gli animali. Ecco la radura dimenticata, un tempo abitata dall’uomo. È lì che ancora fiorisce il sempreverde della partecipazione, della vicinanza, solidarietà, fratellanza, amore. Fuori della radura il delfino salva l’uomo – è nella sua natura e sempre lo farà – ma l’uomo per ringraziamento lo pugnala. È accaduto, ahimè, qualche anno fa, non nei nostri mari, bensì lontano, ma qualcuno l’ha fatto. Gli animali ancora si fiutano e si riconoscono. Uniche figure di vitalità possibile, di tenerezza: il gatto che insegna a volare al cucciolo di gabbiano – nella meravigliosa favola di Sepulveda – la lupa che alleva il cucciolo non suo cui il cacciatore ha ucciso la madre. Ecco la Compassione, la Fratellanza in cui sperare.

Dott. Gustavo Cioppa, Magistrato, già Procuratore Capo della Repubblica di Pavia e Sottosegretario alla Presidenza di Regione Lombardia

Tratto da IlTicino.it

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