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04 FEBBRAIO 2019
Report-Age - Abruzzo: Se la Mafia C’è nell’Isola che Non C’è

Non si vede e così raccontarla, per un giornalista, resta difficile. Al Premio Borsellino di Teramo  Attilio Bolzoni descrisse questa stessa difficoltà, il corrispondente di Repubblica era a Palermo negli anni delle stragi, un periodo che rappresenta una eccezione per una organizzazione, la mafia siciliana, che ha sempre coltivato il silenzio nella sua vita e nella storia.

Parte prima

La prima domanda è se in Abruzzo ci siano infiltrazioni mafiose e, se la risposta è sì, da quando e a che livello. L’isola felice è certo area di passaggio per le organizzazioni criminali. Occorre capire però se le mafie hanno intessuto sui territori una rete di attività economiche, magari  all’apparenza lecite, che danneggiano soprattutto l‘Ambiente e dunque la nostra salute.

Come e perché si sono adattate queste organizzazioni criminali nel tempo e nei diversi territori? Pecunia e attività sono state ripulite trasformando il tutto in imprese dall’immagine ingannevolmente positiva?

La legalità in cui operano queste organizzazioni è malleabile, lo dice Don Luigi Ciotti, coordinatore dell’associazione Libera da tutte le  mafie, ospite all’Aquila anche nel 2018. Don Ciotti definisce legalità malleabile il modo di fare di certe imprese che rispettano la legge solo se conviene. Don Ciotti, suggerisce di superare l’equazione Mafia-Sangue, Mafia-Bombe per cominciare a considerare un’altra equazione: Mafia-Impresa.

Parlare ancora di Abruzzo isola felice nel 2019 sembra anacronistico, considerare gli affari della criminalità organizzata in regione alla stregua di infiltrazioni mafiose tra il 2014 e i 2015 è forse già antiquato per i tempi. Lo confermano indagini, atti e studi di enti ed organizzazioni come le associazioni Peppino impastato, Rita Adria e PeaceLink Abruzzo e, non ultima, l’Associazione Vittime del dovere che a Sulmona (Aq), novembre scorso, ha dedicato 2 giorni di convegni sul tema delle mafie: Ecomafia (neologismo forse coniato da Legambiente che si traduce nell’insieme di attività illegali, poste in essere da  organizzazioni criminali, per lo più di stampo mafioso, che recano danni all’ambiente) e agromafia. 

Un breve excursus è necessario per spiegare in modo più consapevole delle attività mafiose  che si consumerebbero anche in questa regione.

L’Abruzzo è quasi un’isola felice, rassicura a novembre il giornalista del Tg3 presentando i dati diffusi dal Sole 24 ore sul numero di denunce in Italia (6 mila 600 denunce al giorno, circa 277 ogni ora), crimini in calo del 2,3%, è allarme per violenza sessuale, droga e incendi nelle province italiane. A Milano, Rimini e Bologna si registra il maggior numero di reati denunciati. Aumento record di denunce a Rieti e Livorno, Asti e Catanzaro sono invece le più virtuose. Questa raccolta dati dello scorso anno, sul numero di denunce, potrebbe fornire un quadro reale dei reati commessi? No, se la criminalità organizzata è presente e si è insediata, allora questa è solo la punta dell’iceberg e, si sa, che le mafie operano in silenzio in territori all’apparenza tranquilli che sono terreni fertili. Nella classifica della quantità di denunce nei capoluoghi, Pescara è al 23esimo posto (una media di 4 mila 217 denunce ogni 100 mila abitanti), un calo del 6,7% e c’è un aumento di Usura e Associazione a delinquere. La provincia di Teramo è 47esima dove si registra  un aumento del 6,51% di denunce. Chieti 77esima, con -1,48% di denunce. L’Aquila è 98esima con un aumento di denunce del 2,53%. Dati che sollevano gli animi: l’Abruzzo è quasi un’isola felice.

Quel quasi però non convince. Tempo prima, a metà luglio 2014 la favoletta dell’isola felice ci è stata propinata da Rosy Bindi, allora presidente della Commissione parlamentare antimafia che, ospite all’Aquila, tratta di mafia e parla d’infiltrazioni mafiose. Ne parla alla platea come di un incidente di percorso per il capoluogo di regione. Un incidente dovuto alla ricostruzione post sisma (6.4.2009). In breve, la presidente della commissione parlamentare antimafia considera la presenza di organizzazioni mafiose in regione il frutto di scelte errate fatte per gestire l’emergenza e la ricostruzione. Eppure il giornalista Roberto Saviano aveva avvertito le istituzioni, qualche giorno dopo la scossa che atterrò il capoluogo di regione, sottolineando come le mafie si sarebbero spartite gli affari tra ricostruzione e i lavori per l’appuntamento dell’Esposizione Universale Milano 2015 (expo 2015). Così, in un turbinio di se e di condizionali il succo del discorso di Bindi è che Il problema mafia prima all’Aquila non esisteva e se dopo il sisma ci sono state infiltrazioni lo si deve a scelte sbagliate nella fase di emergenza e nella ricostruzione. 

Sempre di infiltrazioni mafiose parla Stefano Schirò, presidente della Corte d’Appello dell’Aquila, a gennaio 2015. Siamo all’inaugurazione dell’anno giudiziario e in quello stesso frangente, ancora in qualità di presidente della Commissione Parlamentare antimafia, Bindi si trova a Vasto dinanzi ad una platea di studenti a cui chiede solidarietà per il magistrato Nino Di Matteo, ma non accenna ad alcuna questione di infiltrazione mafiosa nonostante l’area del chietino, in cui la Bindi interviene, sia tra le più appetibili per le organizzazioni criminali.

Nella stessa scuola vastese fa visitata il procuratore generale Bruno Tarquini 18 anni prima che Bindi e Schirò accennino ad infiltrazioni mafiose in Abruzzo, in special modo all’Aquila, esattamente nel 1997 il procuratore Tarquini chiarisce che per l’Abruzzo la  fase di rischio infiltrazioni mafiose è ormai superata e si può parlare di una vera e propria  emergenza criminalità determinata dall’ingresso di clan campani e pugliesi anche nel tessuto economico abruzzese.

La vicinanza a territori in cui la criminalità è radicata, i collegamenti resi più facili da vie di comunicazioni come la strada adriatica, la Trignina e la crisi endemica hanno contribuito a generare questa emergenza. Dunque molto prima del 2009 l’Abruzzo, per le organizzazioni criminali, sembra rappresentare molto altro.

È soprattutto uno sbocco per i rifiuti che non si potevano più scaricare in Campania in seguito ai sanguinosi contrasti fra famiglie della camorra, lo confessa Carmine Schiavone, primo pentito della Terra dei fuochi, nel 1997 alla Commissione antimafia sottolineando che la camorra ha steso la sua rete di illeciti anche in Abruzzo già negli anni ’90.  Le rivelazioni che Schiavone fa negli anni ’97 e 98 vengono secretate dal Parlamento per oltre 20 anni. Desecretate solo in questi ultimi 4 anni, perché?

In alcune aree della Regione oggi giacciono vere e proprie bombe ecologiche basti ricordare, tra le più famose, l’ex fornace di Tollo (Ch), le discariche a ridosso della Trignina (ovvero la strada statale 650 di Fondo valle Trigno – ss 650 – che collega la statale 17 dell’Appennino Abruzzese e Appulo Sannitico, nei pressi di Isernia, con la statale 16 nei pressi di San Salvo Marina (Ch), costeggiando il fiume Trigno. Si parla di triangolo della morte per il confine molisano con l’Abruzzo segnato dal fiume Trigno. I dati dei rapporti della Commissione parlamentare d’inchiesta, in merito a questa località, sono raccolti in 12 pagine piene di nomi e cognomi, circostanze e inchieste che avvelenano l’Abruzzo. 

Qualche dato: l’ex discarica di Scurcola Marsicana (Aq).  Sul finire degli anni ’90 mentre Carmine Schiavone confessa alla Commissione parlamentare d’inchiesta (antimafia), almeno 15 comuni  abruzzesi e molisani, appaltano lo smaltimento dei rifiuti urbani a Gaetano Vassallo, allora imprenditore dei rifiuti, per 20 anni protetto dai casalesi, successivamente collaboratore di giustizia. Nato a Cesa, Caserta nel 1958, Vassallo è considerato il re mida dei rifiuti. Titolare di un’impresa per lo smaltimento, per oltre 20 anni ha gestito l’affare degli sversamenti abusivi sotto la protezione del clan dei casalesi. Diventato collaboratore di giustizia nel 2008, Vassallo nel 2010 è stato condannato per traffico di rifiuti e associazione camorristica.

I rifiuti dei Casalesi furono scaricati anche in Abruzzo, in provincia dell’Aquila, in Marsica pare nella cava Mascitti e a Scurcola Marsicana. Ancora a Tollo (Ch) e sono stati sversati anche in aree vicine al fiume Pescara, a Chieti Scalo e a Cepagatti in contrada Aurora.

Inchieste 

Nel 1989 la procura di Palmi (Reggio Calabria) scoprì una rete che ripuliva i capitali delle mafie tra Calabria, Abruzzo, Campania e Sicilia. Fra gli arrestati c’era uno dei responsabili di una banca della provincia di Teramo dove finivano i soldi di Cosa nostra, camorra e ‛ndrangheta.

Negli anni 90 il tesoro di Ciancimino 

Nel 2004 inchiesta Mosca della Procura di Larino (Capobasso-Molise), un’organizzazione (gli accusati sono tutti prosciolti) che smaltiva illegalmente, tra Campomarino e Termoli, rifiuti tossici (furono rinvenute 120 tonnellate!) provenienti da tutta Italia. Termoli è a mezz’ora di auto sulla Strada nazionale Adriatica (ancor meno in autostrada) dal confine con l’Abruzzo e San Salvo (Ch), il confine Sud di un’enorme agglomerato urbano che comprende anche una delle principali città della costa abruzzese, Vasto.

Nel 2007 vennero eseguiti i sequestri a Pizzoferrato, in provincia di Chieti, delle proprietà della famiglia Schiavone, del pentito Carmine Schiavone, il primo a svelare l’affare rifiuti della terra dei fuochi. Mentre Schiavono collabora con la Commissione antimafia, ben 15 comuni abruzzesi appaltano lo smaltimento a Gaetano Vassallo, re mida dei rifiuti, per 20 anni sotto la protezione dei casalesi. Carmine è fratello di Francesco Schiavone, alias Sandokan, ai vertici del clan casalesi, il figlio di quest’ultimo Nicola a luglio scorso ha cominciato a collaborare con la giustizia. (Pizzoferrato è collegabile alla provincia dell’Aquila attraverso la Strada del bosco, chiusa da 4 anni, ma da ottobre è aperto il cantiere per la messa in sicurezza. La strada è stata fatta costruire negli anni ’30 dal primo presidente di Cassazione, Ettore Casati, che andava in villeggiatura a Pizzoferrato).

Gennaio 2015 operazione dei Forestali Terre d’oro. In 4 finiscono agli arresti domiciliari con l’accusa di traffico illecito di rifiuti speciali e discarica abusiva. Tra gli indagati un ex candidato sindaco della Lega Nord a Montesilvano (Pe). Oltre una decina di imprese perquisite tra Pescara, Chieti, Roma e Milano. Secondo l’accusa, i 4 avrebbero lucrato sullo smaltimento di tonnellate di terre e rocce da scavo. Indagata anche una donna di Chiesa, Suor Vera D.A., sorella di un ex assessore comunale di Chieti, a sua volta arrestato a luglio 2013 per presunta violenza sessuale ai danni di aspiranti proprietarie di case popolari. La suora sembra che gestisse una struttura /comunità in un’area del Comune di Popoli anni prima il terreno era legato al Polo chimico di Bussi, quello del famoso caso Montedison: la discarica dei veleni tra le più grandi d’Europa

Le mafie fanno affari con i rifiuti e l’energia. In che modo guadagnano con i rifiuti? Li bruciano perché è il metodo più conveniente perchè così non li devono trattare, spiega il Procuratore della Direzione investigativa antimafia Roberto Pennisi.

A luglio 2017 Pennisi è favorevole ai termovalorizzatori. Gli ambientalisti chiamano questi impianti con un termine più appropriato: inceneritori. Le affermazioni del procuratore Pennisi hanno una ragione: “Fin quando c’è stata la disponibilità della camorra veniva comodo rivolgersi a loro, ora è proprio il sistema economico a muoversi illegalmente”. La produzione, il guadagno e il lucro sembrano vincere sulla prevenzione e la tutela dell’Ambiente e dunque della salute dell’Uomo che non è al primo posto.

Nella relazione semestrale della Direzione nazionale antimafia, luglio 2017, nel capitolo dedicato alla criminalità ambientale, firmato da Pennisi, si legge che non si tratta più di ingerenze della criminalità mafiosa nello specifico settore, ma delle deviazioni dal solco della legalità, per puro e vile scopo utilitaristico». Meno ecomafia, per Pennisi il responsabile è l’impresa. Da qui la frase di settembre 2017 del Procuratore Pennisi: “Il rifiuto meno lo tocchi e più guadagni”. La legge dispone di portarlo in discarica, ma basta un “benedetto fuoco”, così lo definisce Pennisi, che il rifiuto brucia va in fumo e il fumo non si tocca più (tra le fonti Rimateriapiombino.it).

E se si stesse spingendo per costruire altri inceneritori? Il problema dello smaltimento e del trattamento rifiuti è grave per il riutilizzo della plastica soprattutto in Italia. Un dossier dei Verdi segnala, per il 2017, sono stati 110 gli incendi di impianti italiani di recupero, di questi 7 riguardano discariche. Nel dossier,  aggiornato a marzo 2018, si aggiungono 27 incendi dolosi per il primo trimestre. E dall’inizio dell’anno sino a dicembre 2018, solo in Lombardia, si contano 17 incendi dolosi di impianti che trattano rifiuti.

A Milano nella notte tra il 14 e 15 ottobre, brucia un impianto di recupero in pieno in centro abitato.

Non finisce qui, il 26 ottobre a Marcianise, nel casertano, brucia un impianto di smaltimento della Lea, chiuso 3 mesi prima dal sindaco di Marcianise, Antonello Velardi, sotto sigilli della Procura di Santa Maria Capua Vetere per sospetto inquinamento ambientale. Ne bruciano altri, sempre nel casertano, a dicembre.

Nella relazione del 2017 i Verdi sottolineano che il fenomeno degli incendi dolosi di questi impianti si distribuisce in modo omogeneo in tutta Italia e che il problema è aggravato dalla chiusura di oltre 600 imprese in Cina addette all’importazione di materiali plastici,  tra i Paesi importatori anche l’Italia che oggi trova difficoltà nel riutilizzo della plastica differenziata. Tra i rimedi contro i roghi, suggeriti dai Verdi, viene suggerito l’uso dei droni e termo telecamere con l’installazione di sistemi di videosorveglianza nelle fabbricati che operano in questo settore. E le plastiche che fine fanno, dove le piazziamo se si accumulano?

In Abruzzo di certo qualche impianto e qualche discarica sono andati a fuoco. Alcuni episodi?

Nella notte tra il 23 e 24 novembre 2018 non bruciano rifiuti, ma 5 mezzi del Cogesa, società pubblica partecipata che per i Comuni delle aree interne d’Abruzzo si occupa di servizi di smaltimento e trattamento dei rifiuti. Per tutto il 2018 l’ex consorzio ha accolto rifiuti da Roma che è ancora in stato d’emergenza per il pattume. L’impianto di Malagrotta, per il trattamento meccanico biologico, va a fuoco nella notte del 12 dicembre 2018. L’incendio impone, di necessità, l’ulteriore ricorso agli impianti abruzzesi per smaltire i rifiuti. In Abruzzo però il Cogesa già da ottobre dichiara di non poterli più accogliere per altri impegni presi. Viene chiarito in una nota di risposta a Mauro Tirabassi, consigliere comunale di Sulmona, dall’assessore comunale Stefano Mariani. Per la seconda volta la regione dei parchi va incontro alla capitale e a trattare i rifiuti romani saranno così l’impianto di Aielli, sempre in provincia dell’Aquila e quello di Chieti. In questa seconda occasione il costo per trattare il rifiuto capitolino comprende una quota per garantire ai comuni che ospitano gli impianti un sostegno economico per il ripristino ambientale. Sulmona, la città che accoglie l’impianto Cogesa, ne farà a meno.

Altri casi singolari. Uno, l’incendio alla discarica di Colle Sant’Antonio, sempre in provincia di Chieti e l’altro nell’impressa Adria gomme al confine tra Sulmona e Pratola Peligna, sempre nell’aquilano. Per i danni dell’incendio di giugno 2015 della discarica di Colle Sant’Antonio, piattaforma di stoccaggio,  il Comune attende, lo dichiara pubblicamente, circa 435 mila euro per il risanamento del sito. Dopo l’incendio però l’Agenzia regionale per la tutela ambientale (Arta Abruzzo), dalla caratterizzazione del sito non rileva inquinamento del suolo e delle acque e dunque la Regione non ha alcun potere d’intervento sia perché l’area è di un privato sia perché non rappresenta un pericolo per la salute dei cittadini. “La Regione interviene se l’inquinamento è certificato e se ha le risorse” spiega il sottosegretario regionale con delega all’ambiente Mario Mazzocca.

Altra discarica nata sotto stessa cattiva stella, come quella di Chieti, è il muro di pattume che si è formato nel giro di una notte in valle Peligna nel 2002 a poche centinaia di metri dal penitenziario ad Alta sicurezza ai piedi di monte Morrone. Montagna sacra di papa Celestino V presa di mira ad agosto 2017, per 20 giorni incendiata da ignoti. Un sito di stoccaggio viene trasformato in discarica in località Santa Lucia di Sulmona. Nato come piattaforma per rifiuti di cartone nel 2002 diventò un muro di pattume, con presenza di NiΚel e Cadmio rilevati nel terreno dalle analisi dei forestali con il georadar. La messa in sicurezza nel 2013 costa al Comune di Sulmona circa 30 mila euro, è tata eseguita coprendo i rifiuti con dei teloni verdognoli, pochi mesi dopo volati via col vento. Naturalmente il titolare della società che avrebbe dovuto stoccare i “cartoni” è stato condannato, ma non ha un centesimo di euro e dunque a pagare sono i cittadini, per il momento 30 mila euro e probabilmente tante questioni di salute. Potrebbe essere la stessa parrocchia della discarica di Chieti? Qualcuno è pronto a giurarci.

Incendio impianto Adria Gomme a Pratola Peligna (Aq), al confine con Sulmona (Aq). A luglio 2014 il triturato di pneumatici, nei big bag, bruciò 2 volte nel piazzale dell’azienda fallita. Due incendi sviluppatisi nel giro di una settimana l’uno dall’altro, il secondo incendio è doloso e non è dovuto ad una ripresa del fuoco. Il primo si sviluppa da un cumulo di residuo di triturato invendibile che andava  smaltito in discarica. La Regione stanzia fondi nonostante il terreno sia di proprietà di una società privata, fallita, perché è certificato l’inquinamento del suolo e delle acque e anche il rischio di contaminazione per le falde. La bonifica viene affidata alla stessa ditta che bonificò la discarica Santa Lucia, il Comune di Pratola bonifica e solo nel 2016 riceve un finanziamento dalla Regione per coprire le spese.

Tratto da ReportAge.com

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